IL SOGNO CHE RICORDA PRIMA DEL TEMPO

IL SOGNO CHE RICORDA PRIMA DEL TEMPO
“Non tutto ciò che sogni viene da te. Alcuni sogni… ti ricordano da prima che tu esistessi.”
Da alcuni giorni, Ari’el si svegliava nel mezzo della notte con l’impressione che fosse già giorno sotto la palpebra chiusa, come se la luce e il buio fossero schiacciati insieme nello spazio sottile tra il sonno e la veglia. Non era incubo. Non era timore che si aggrappa. Era una forma cieca di nostalgia, una chiamata senza voce che vibrava attraverso di lui con la pazienza delle maree. Non arrivava all’orecchio, ma si posava tra le costole, sussurrando in modo così costante e sommesso che diventava impossibile distinguere ciò che era reale dal resto. Più il sogno si ripeteva, più la sensazione gli sembrava precisa, come un odore che si riconosce da bambini e che torna improvviso, anni dopo, senza nome.
C’era sempre una premessa, un presagio che precedeva questi risvegli. Ari’el si accorgeva del proprio corpo da subito, come di un oggetto trovato per caso e già usurato, con la pelle che sudava ricordi e gli occhi che si affacciavano al buio senza domande. La casa sembrava cristallizzata in un presente teso: la stanza opaca, la finestra socchiusa, la tenda ancora oscillante per un vento già passato. Sembrava che qualcosa avesse appena lasciato la stanza, e la sua assenza era la sola presenza riconoscibile. Ari’el restava lì, sdraiato, finché quella sensazione lo sospingeva verso l’alto, come una corrente che sradica la riva. Così si alzava, incerto sulle gambe, chiedendosi se la veglia fosse veramente il contrario del sogno.
Quella notte si ritrovò in piedi, già accanto al letto, senza ricordare il gesto di alzarsi. La luna, oltre la finestra, filtrava attraverso le stecche della tapparella come una griglia di argento spento. Ma la luce sembrava incapace di toccarlo, come se lui stesso fosse privato di ogni riflesso. Allungò una mano davanti a sé: le dita, per un istante, tremarono come se stessero per dissolversi. L’aria intorno era diversa, non più densa, ma scavata, come se ogni molecola avesse lasciato spazio a un’altra sostanza impalpabile. Tutto nella stanza sembrava in attesa di un gesto che nessuno avrebbe compiuto. Un fermo immagine in cui anche la polvere sospesa aveva smesso di cadere.
Ari’el abbassò lo sguardo sulle assi del pavimento. Il legno, solitamente così pronto a increspare ombre, rifletteva ora solo la spoglia geometria della stanza. Nessun alone di sé, nessuna sagoma a segnare il suo passaggio. Provò a muovere la mano, a ruotare il polso, a far scattare le dita come per svegliarsi definitivamente—ma ogni movimento sembrava assorbito, come se il corpo stesso fosse diventato trasparente. Persino il battito del cuore gli parve remoto, una pulsazione confinata da qualche altra parte, forse fuori dal tempo.
Si chiese per un attimo se fosse morto, o se la morte fosse solo la somma di tutti i risvegli interrotti. Ma i pensieri stessi sembravano non appartenergli, inseguiti uno dopo l’altro nella fuga dalla realtà. C’era solo la vibrazione, la sottile corda invisibile che tirava da qualche punto remoto.
Poi accadde, senza preavviso. Non chiuse gli occhi, non perse il senso della stanza. Fu come se la pelle si capovolgesse verso l’interno, e ogni superficie—pareti, aria, ossa—si dissolvesse per far spazio a un’altra forma di percezione. Il passaggio fu silenzioso, ma lasciò dietro di sé una scia di vuoto bruciante, come uno sbalzo di pressione tra due mondi che si ignorano da secoli.
Quando la stanza riacquisì contorni, Ari’el non si trovava più dove pensava di essere. Nessun letto, nessuna luna filtrata, nessuna finestra. Solo una Stanza, completamente bianca, senza mobili né oggetti, le pareti distanti come l’orizzonte in una giornata di foschia. Lì al centro, un unico punto di colore: la sagoma di un bambino addormentato, rannicchiato sul pavimento, come se fosse caduto in sogno durante il gioco. La Stanza era silenziosa, ma Ari’el sentì il palpito immediato di qualcosa che si stava caricando nell’aria. Un’eco che non aveva emittente, ma che solo lui sembrava poter ascoltare. Non era il suo respiro, ma era il respiro che lo avrebbe sognato.
🜂 La Stanza del Ricordo non Vissuto
Il sogno iniziò con un respiro. Ma non era il suo. Una stanza vuota, dai contorni sfocati. I colori non esistevano. Solo contrasti. E al centro, un bambino addormentato su un cerchio tracciato a terra. Non sembrava Ari’el. Eppure… lo era. Aveva il suo volto, ma privo di ogni tempo. Il sigillo sull’avambraccio non c’era ancora. Ma lo spazio lo prevedeva già.
Ari’el era perplesso, incerto su cosa stesse realmente accadendo. Senza sapere come, comprese: “Questo è un tempo prima del tempo. Una possibilità che non è mai stata scelta. Un seme che non ha germogliato.” Ma, mentre lo realizzava, una parte di lui si chiedeva se fosse davvero giusto alterare qualcosa di così antico e intoccato.
Si avvicinò. Lentamente. Ogni passo sembrava creare una fenditura nel sogno stesso, come se il camminare significasse alterare le regole del luogo. Un dubbio lo tormentava: e se avesse fatto la scelta sbagliata? Senza toccare il bambino, si chinò. E allora lo spazio si ruppe. Il pavimento scomparve. La stanza collassò su se stessa. E Ari’el cadde. Non verso il basso. Ma verso un prima. La caduta era inevitabile ora, ma il conflitto dentro di lui persisteva, senza risposte.
🜁 Il Prima del Nome
Le voci risuonavano senza origine né direzione, come se l’intero sogno fosse diventato una membrana attraversata da echi di altre vite, altri mondi, altri destini. Nessun suono umano, nessuna parola articolata—solo ombre fonetiche, impulsi che danzavano nel vuoto. Ari’el tentò di seguirne il filo, ma ogni volta che si illudeva di comprenderne il senso, questo si scomponeva ancora, riverberando subito oltre il suo raggiungibile. Era come se stesse ascoltando un idioma preistorico, la matrice di tutte le lingue, i significanti ancora in cerca di un corpo.
Le frasi si accendevano e si spegnevano, incomplete, lasciando dietro di sé la sensazione tagliente di ciò che non era stato detto. I simboli, invece, si disegnavano nell’aria con la precisione di una scrittura dimenticata: spirali di luce, innesti di ombra, geometrie che si componevano e si disfacevano ogni pochi battiti. Ciascun segno sembrava tentare di catturare l’attenzione di Ari’el, sedurlo in una trama che lo riguardava ma che gli restava impenetrabile. Eppure, più osservava, più sentiva che quei segni non erano affatto casuali. Sembrava che il sogno stesso scrivesse la sua storia, e che quella storia fosse già stata scritta infinite volte.
Poi, sospeso tra la folla delle voci e la pioggia dei simboli, un frammento prese corpo: una frase distinta, scagliata nel silenzio come una freccia. “Non chiamarlo prima che sia pronto. Il nome potrebbe aprire varchi.” Era un ammonimento, sì, ma anche una promessa. Ari’el ebbe l’impressione fisica che quella frase si aggrovigliasse intorno ai suoi pensieri, tenendoli legati come fili in una trama troppo vasta per essere intuita. Cercò di domandare chi o cosa non andasse chiamato, ma tutte le domande gli si congelavano nella gola.
Il nome, capì allora, era la soglia stessa. Non solo etichetta, non solo distinzione. Chiamare qualcosa significava farlo esistere. Eppure, c’era di più: il nome era una struttura, un disegno vibrante che prendeva spazio nello stesso atto in cui veniva pensato. Sentì il proprio—Ari’el—non come un suono, ma come una linea che si fletteva nell’aria. Lo vide: il suo nome era una geometria sonora, un sigillo vivente in attesa di incarnarsi, pronto a forare il velo che separava i sogni dalla materia. Era come se tutto l’universo avesse trattenuto il fiato aspettando il momento esatto in cui sarebbe stato pronunciato.
E in quell’istante, le voci si fermarono. Nessuna eco, nessun simbolo. Solo il suo nome che tremava, puro, come una nota tenuta all’infinito. Per un tempo impossibile, Ari’el restò avvolto in quella nota—poi, all’improvviso, sentì il sogno cedere, la membrana strapparsi.
🜂 Ritorno alla Fronte della Notte
Quando Ari'el riaprì gli occhi, la sua stanza sembrava avvolta da un'ombra incombente. Il sigillo sull’avambraccio vibrava con un'energia ancestrale, come se avesse risvegliato un'eco dimenticata nei recessi del tempo. La madre, ignara del tumulto interiore del figlio, lo trovò il mattino seguente avvolto in un silenzio profondo e inquietante, ma al contempo... più scolpito. Ogni tratto del suo volto, ogni suo gesto, era caricato di un'urgenza quasi sovrumana. Da quel giorno in poi, il mondo esterno rimase immutato, ma Ari'el subì una trasformazione radicale. L'aura intorno a lui s'intensificò, come se la terra stessa stesse risvegliando antiche memorie al suo fianco.
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